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Principi naturali del giudizio penale e linee di evoluzione del nuovo sistema processuale alla luce della riforma dell’art. 111 Cost.

Il giudizio penale è governato da una serie di principi fondamentali tra cui particolare rilevanza assumono quelli della contestazione, del contraddittorio, della pubblicità, della oralità, dell’immediatezza, della difesa e del libero convincimento del giudice. Tra essi quello della pubblicità, dell’oralità e del contraddittorio vengono qualificati come “naturali” in quanto immanenti alla società, predicati della sua organizzazione e pertanto delineabili come nuclei storicamente significativi.

La scelta del modello di procedimento penale infatti è significativa del livello di civiltà di un popolo come già rilevava il giurista Mario Pagano nel XVIII secolo: “Il processo fa quel corso medesimo che compiono le nazioni tutte nei diversi loro ma stabili periodi. Le barbare nazioni non conoscono affatto processi, le di loro cause, o si decidono con il ferro o con il parere ed arbitrio di un senato composto dai capi delle nazioni e di un re duce nella guerra e sacerdote nella pace […] Quando poi coltivasi più la società e la barbara civile polita diviene sviluppasi la ragione si stabilisce un moderato governo e vengono fissate le vere idee della libertà civile; si conosce allora la necessità d’un regolare processo; le leggi ne dettano la forma, e ne stabiliscono le utili e necessarie formalità, le quali, frenando l’assoluto arbitrio del giudice, non lasciano luogo alcuno alla perniciosa impunità”.

La penalità moderna, in quanto ragione, dovrebbe, quindi, essere affrancazione progressiva dal modello dell’inquisizione in cui il potere del sovrano si esprime attraverso la segretezza del processo, tendente all’accertamento della verità mediante confessione e la pubblicità esemplare dell’esecuzione della pena. Il ribaltamento progressivo dei criteri della sovranità avrebbe condotto nello stato di diritto al ribaltamento di un simile modello attraverso la pubblicità del processo e la perdita di esemplarità delle pene. A tale proposito non a caso N. Bobbio spiega la dinamica tra visibilità ed invisibilità delle procedure del potere come il metro che dimensiona successi ed insuccessi della democrazia. Al potere, alla democrazia come palazzo, “arcana imperi”, si contrappone la democrazia come piazza, “agorà”, dove le regole delle relazioni e quelle del loro controllo siano visibili e a loro volta controllabili. Da questo punto di vista tra gli esempi storici più significativi di democrazia evoluta si collocano il processo attico, quello romano di epoca repubblicana e quelli nati dalla riforma rivoluzionaria della fine del ‘700.

(...) Il principio della pubblicità e del contraddittorio – affermati per la prima volta in maniera sistematica dagli illuministi francesi (Marat, Robespierre, Pagano ecc.), riaffacciatisi alla fine del ‘700 con le grandi costituzioni americane ed europee e descritti nelle convenzioni internazionali sui diritti umani (art. 6 Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e art. 14 Patto internazionale dei diritti civili e politici) – trovano la loro espressa enunciazione nell’art. 111 Cost. come modificato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, che ha provveduto a collocarli saldamente al vertice della gerarchia delle fonti.

Nella sua configurazione costituzionale, attraverso il novellato art. 111, comma 2, il principio di pubblicità – inteso come acquisizione e formazione della prova in pubblica udienza celebrata “coram populo” (con l’unico limite, come nel processo penale attico, che rinviene dalla supremazia dello stato e dall’interesse statale – art. 471-472) evidenzia la sua doppia valenza di controllo sociale sul processo e di diritto individuale dell’accusato che la prova venga formata in sua presenza mediante un’attività in contraddittorio.

In ordine al primo profilo particolare rilievo assume una pronuncia della corte costituzionale (sent. n. 59 del 1995) con la quale si precisa l’esigenza di contemperare gli interessi della giustizia con quelli dell’informazione – entrambi costituzionalmente rilevanti – nonché di riconoscere il bisogno di trasparenza e di controllo sociale sullo svolgimento della vicenda processuale. Su tutti gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero è posto l’obbligo del segreto e il divieto di pubblicazione fino a quando i medesimi “non possono essere conosciuti dall’indagato). I limiti alla divulgabilità degli atti di indagine preliminare si collegano inequivocabilmente alle esigenze investigative, operando al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini a causa di un’anticipata conoscenza delle stesse da parte della persona indagata. Strumentali, poi, al diritto di conoscenza, da parte della persona dei procedimenti penali che la riguardano, sono una serie di norme inserite nel codice, quali quelle relative all’informazione di garanzia (art. 369 cpp), all’informazione della persona sottoposta alle indagini sul diritto di difesa (art. 369 bis), all’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari (art. 415 bis), alla presenza del registro delle notizie di reato (art. 335).

Al principio di pubblicità e a quello del contraddittorio fa riscontro il principio dell’oralità – inteso come metodo d’acquisizione delle prove con dichiarazioni rese oralmente dinanzi al giudice, senza prove scritte precostituite provenienti da una precedente fase investigativa o istruttoria. Ugualmente, il principio del contraddittorio – nella sua accezione di metodo dialettico di formazione della prova proprio del sistema accusatorio, cui pure si ispira la legge di riforma della procedura penale del 1988 – nel nuovo impianto normativo assume la sua autentica fisionomia, diventando modello infungibile di elaborazione probatoria: non più un contraddittorio sulla prova cristallizzata in una pregressa fase, ma il contraddittorio per una prova che deve essere progressivamente formata attraverso i contrapposti interventi delle parti con un giudice nell’immediato rapporto con le fonti di prova.

Con la novella dell’art. 111 il principio in esame ha trovato la sua consacrazione, al quarto comma, sia nella sua dimensione oggettiva, cioè quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti, sia nella sua dimensione soggettiva – cioè quale diritto dell’imputato di confrontarsi con il suo accusatore. Nel terzo comma dell’art. 111 della costituzione si riconosce alla persona accusata “la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”. Il principio trova poi una specifica puntualizzazione nella regola, dettata dalla seconda parte del quarto comma, secondo cui la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.