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La risarcibilità degli interessi legittimi: profili processuali e tutela sostanziale

Il principio della risarcibilità degli interessi legittimi, sancita per la prima volta dalle S.U. della Corte di Cassazione con la sentenza n. 500/99, costituisce l'espressione più evidente della crisi evolutiva che ha investito sia la nozione di interessi legittimi sia il concetto di diritto amministrativo.

Quest'ultimo, pur conservando indubbi profili di specialità, connaturati al significato stesso di funzione pubblica quale cura di interessi pubblici, si va sempre più affrancando dall'originaria accezione di diritto speciale di una funzione pubblica che, in quanto tale, deve godere di un suo ampio margine di specialità e privilegio, deve svolgersi in un'area riservata sottratta all'interferenza paralizzante di altri poteri e deve, soprattutto essere assistita dai crismi dell'imperatività ed esecutività; per contro, si va sempre più affermando una concezione del diritto amministrativo fondata sul pluralismo istituzionale e sull'esercizio di compiti pubblici non in forza del principio di autorità dell'amministrazione, bensì mediante la collaborazione dei soggetti interessati, con il conseguente ampliamento della sfera del cd. diritto paritario.

L'interesse legittimo, a sua volta, nelle più recenti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, non rileva più come situazione meramente processuale, del quale non sarebbe neppure ipotizzabile una lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche, al pari del diritto soggettivo, natura sostanziale, configurandosi come "posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell'attribuzione al tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene".

La stessa sentenza 500/99, nell'affermare la risarcibilità dell'interesse legittimo in virtù di un'approfondita rivisitazione dell'art. 2043 c.c., come norma primaria, in relazione al paradigma del danno ingiusto, si pone all'esito di una duplice evoluzione sia giurisprudenziale che legislativa.

Sul piano giurisprudenziale, già anteriormente alla sent. 500/99, la giurisprudenza della Cassazione aveva ampliato la base della risarcibilità del danno ex art. 2043, in un certo senso ponendo le basi per l'approdo all'affermata risarcibilità degli interessi legittimi (da parte delle S.U.).

Un primo ambito di ampliamento dell'area della risarcibilità si è avuto ad opera della giurisprudenza civile che, distaccandosi dalla tradizionale e ristretta lettura dell'art. 2043 come norma sanzionatoria avente ad oggetti i soli diritti soggettivi assoluti, ha esteso il riconoscimento della risarcibilità anche ai diritti relativi, alle aspettative del familiare di fatto, alla perdita di chance, alle lesioni di interessi legittimi tra privati e al cd. diritto all'integrità patrimoniale; formula quest'ultima particolarmente rilevante in quanto, oltre a rivestire un preciso valore giuridico, ha assunto un valore ideologico e sistematico ai fini del risarcimento del danno: con essa non rileva più il danno giuridico, ma il danno economico e la conseguente necessità di ripristinare l'equilibrio economico turbato.

Tali svolte interpretative, tuttavia, non contraddicevano, nella sostanza, il "dogma dell'irrisarcibilità" dell'interesse illegittimo, in quanto gli indicati ampliamenti dell'area della risarcibilità risultavano comunque veicolati dal "mascheramento" da diritti soggettivi di una pluralità di situazioni che tale consistenza in realtà non avevano.


 

Il medesimo meccanismo di trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritto soggettivo ha consentito il parziale accesso dei primi alla tutela risarcitoria. A parte la tematica dei comportamenti materiali dell'amministrazione o, comunque, di attività non provvedimentali, per le quali trattandosi di attività svolte more gestionis, nessun dubbio era stato mai avanzato in ordine alla loro idoneità a essere fonte di responsabilità aquiliana, il dato giurisprudenziale più significativo in tema di danni derivanti da attività provvedimentali illegittime, è rappresentato dalla risarcibilità del diritto affievolito, ritenendo la giurisprudenza che l'annullamento dell'atto illegittimo valesse ad eliminare l'effetto di degradazione del diritto soggettivo al rango di interesse legittimo oppositivo e che consentisse quindi la riespansione della posizione soggettiva alla dignità di diritto soggettivo, pienamente risarcibile in quanto tale; risarcibilità di contro non ammessa ove la situazione ripristinata retroattivamente avesse consistenza di interessi legittimi.

Erano comunque rimasti sempre esclusi dalla tutela piena, tutela cioè di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa e, quindi, risarcitoria, in sede di giurisdizione ordinaria, gli interessi legittimi pretensivi, salvo quelli lesi da fattoreato, per i quali la Corte di cassazione aveva affermato che l'ingiustizia è in re ipsa e non ha quindi bisogno di essere riconnessa alla lesione di un diritto soggettivo. Con la sent. 500/99, le S.U. riconoscono la tutela risarcitoria delle posizioni di interesse legittimo con particolare riferimento a quelle di natura pretensiva; tuttavia, mentre per gli interessi legittimi oppositivi lesi da un atto comunque viziato ribadiscono l'automatico diritto al risarcimento, per gli interessi pretensivi costruiscono una "rete di contenimento", sul versante dell'ingiustizia del danno, negando che questa sussista ove la pretesa al provvedimento favorevole non sia sostenuta da buone probabilità di accoglimento, secondo una valutazione prognostica che il giudice deve compiere in base all'id quod plerumque accidit.

Dal punto di vista legislativo, la prima apertura in ordine alla risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi è intervenuta con l'art. 13 della L. 142/92, che ha recepito le direttive Cee del 1989 e del 1992, secondo cui "i soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento, possono chiedere all'amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. La domanda di risarcimento è proponibile davanti al giudice ordinario da chi ha ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo".
La norma non incide tuttavia sulla giurisdizione e delinea un meccanismo lento e complicato che passa per l'annullamento dell'atto illegittimo e solo dopo consente l'adizione del giudice ordinario per il risarcimento determinato dall'atto annullato.

Successivamente, il D. Lgvo 80/98, in attuazione della delega contenuta nell'art. 11 co. 4, della l. 59/97, all'art. 35 attribuisce al G.A. nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ai sensi degli artt. 33 e 34, il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto, disponendo, altresì, l'abrogazione dell'art. 13 della L. 142/92 e di ogni altra disposizione che prevedesse la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi nelle materie di cui al comma 1.

Si delinea, così, una giurisdizione su determinate materie che appare del tutto nuova, "perché nel contempo esclusiva, nel significato tradizionale di giurisdizione amministrativa di giurisdizione indifferentemente estesa alla cognizione degli interessi legittimi e dei diritti, e piena, in quanto non più limitata all'eliminazione dell'atto illegittimo, ma estesa alla reintegrazione delle conseguenze patrimoniali dannose dell'atto, perché comprensiva del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto".

In tale quadro evolutivo si inserisce la L. 205/2000, che, nell'intento di rimediare altresì alla pronuncia caducatoria della Corte Costituzionale (sent. 292/2000), intervenuta in relazione alla formulazione della legge di delega, all'art. 7 prevede, con valore formale di legge e quindi eliminando il vizio che aveva determinato la pronuncia di incostituzionalità, disposizioni sostitutive degli artt. 33 - 35, estendendo il risarcimento del danno ingiusto a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva e non più limitatamente a quelle previste dagli artt. 33 e 34; lo stesso art. 7, inoltre, nel novellare l'ari 7 della L. 1034/1971, stabilisce che il T.A.R., nell'ambito della sua giurisdizione conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e gli altri diritti patrimoniali consequenziali,

La L.205/2000, nel sancire normativamente la risarcibilità degli interessi legittimi, introduce, così, in ossequio al principio di concentrazione processuale e semplificazione, una rilevantissima estensione della giurisdizione amministrativa, "restituendo", peraltro, in via legislativa, al G.A., quella competenza relativa al risarcimento degli interessi legittimi che le S.U., in via pretoria, avevano attribuito al G.O. configurandola altresì, come potere di conoscere incidenter tantum dell'illegittimità dell'azione amministrativa e di pronunciarsi sulla domanda indipendentemente dell'esito del giudizio di annullamento dell'atto, di competenza della giurisdizione amministrativa di legittimità.


 


Sul piano processuale, la L. 205/00, concentrando davanti ad un solo giudice ogni controversia tra privato e P.A. che abbia a presupposto l'illegittimità di un atto amministrativo, ha finito per far convivere nell'ambito dello stesso processo due tipi di azioni (e tutele), rispondenti a logiche e finalità completamente diverse.

L'azione di annullamento e la tutela cd. d'interesse legittimo, che viene appunto accordata al G.A. della legittimità. traggono origine da un'esigenza di protezione dell'interesse pubblico, mentre vi è estranea la cd "logica della spettanza", ossia l'intento di attribuire unicuique suum; essa, inoltre, ha la finalità di rimuovere per il passato l'atto illegittimo e di ripristinare anche per il futuro le condizioni di legalità e legittimità della funzione pubblica.

L'azione risarcitoria, invece, è direttamente ispirata alla logica della spettanza e ha unicamente finalità di ristoro del danno ingiusto, non occupandosi di voler ripristinare la legalità violata.

Nella problematica ricostruzione del rapporto tra le due azioni, la giurisprudenza amministrativa sembra fondamentalmente attestata sulla rivendicazione della permanente validità della cd. "pregiudiziale amministrativa" e sull'assunto che la tutela risarcitoria possa trovare ingresso nel giudizio amministrativo solo previo accoglimento del ricorso per l'annullamento del provvedimento, cui si collega il danno ingiusto lamentato dal titolare dell' interesse legittimo leso.
Sul punto, in particolare, il Consiglio di Stato (con la sent. 3169/2001) sottolinea che "l'azione di risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi ha funzione sussidiaria rispetto alla tutela giurisdizionale accordata con l'annullamento dell'atto impugnato. L'azione di risarcimento, in breve, svolge un ruolo di completamento della tutela risultante dal giudicato amministrativo demolitorio, colmando le lacune che possono determinarsi allorquando sopravviene un ostacolo insuperabile alla soddisfazione dell'interesse del ricorrente, per via dell'irreparabilità in forma specifica dei danni provocati dal provvedimento amministrativo positivo". Tale sussidiarietà, sempre secondo il Consiglio di Stato, confermerebbe la razionalità del disegno che devolve la giurisdizione risarcitoria al G.A.: è il giudice competente ad annullare l'atto che provvede, grazie alla reintegrazione in forma specifica ed al risarcimento per equivalente, ad eliminare ogni conseguenza pregiudizievole per il privato proprietario ed a completare la protezione giurisdizionale degli interessi, in armonia col principio di effettività della tutela di diritti ed interessi nei confronti della P.A.

Dall'asserito ruolo sussidiario e residuale del risarcimento del danno rispetto all'annullamento, la dottrina prevalente ha altresì inferito che la reintegra, costituta dalla pronuncia di annullamento, avendo la capacità di soddisfare la maggior parte del danno, limiterebbe il risarcimento alla differenza, normalmente consistente nei danni che si sono prodotti medio tempore.

Di conseguenza, la necessità giuridica che l'assetto di interessi definito dal provvedimento venga previamente contestato dal ricorrente attraverso l'azione di annullamento, si impone anche al fine di evitare che il danno assuma dimensione esorbitante, diversa essendo l'entità del danno per i soli effetti prodotti dall'atto medio tempore, rispetto al maggior danno di un atto non impugnato ed efficace.

Ciò senza che però la mancata proposizione del ricorso per l'annullamento configuri concorso di colpa del creditore ai sensi dell'art. 1227 c.c., in quanto, secondo la costante giurisprudenza, tale disposizione pur non escludendo l'onere da parte del debitore di tenere comportamenti attivi, non può essere interpretata fino ad imporre comportamenti connotati da un consistente sacrificio, quale deve ritenersi la proposizione di rimedi giurisdizionali idonei a ridurre o eludere il danno.


 

Pertanto, mentre anteriormente alla L. 205/00 il ricorrente che aveva ottenuto dal G.A. l'annullamento doveva poi rivolgersi al giudice ordinario per conseguire anche il risarcimento del danno (cd. tutela sdoppiata), ora il ricorrente può già in sede di impugnazione dell'atto illegittimo domandare al G.A., nello stesso ricorso introduttivo, il risarcimento del danno patito e, se non l'ha fatto, potrà sempre avanzare tale domanda, nei limiti della prescrizione (previo annullamento su tempestiva impugnativa dell'atto), con un'autonoma azione successiva, spettante alla piena giurisdizione dello stesso G.A.

Per l'evenienza, poi, che, a fronte dell'evolversi di circostanze di fatto e di diritto non attuali e non prevedibili al momento della sentenza di annullamento, il combinato disposto dell'effetto caducatorio e di quello conformativo non sortiscano un risultato finale di piena soddisfazione dell'interesse sostanziale del ricorrente, parte della giurisprudenza amministrativa ritiene che, nel nuovo contesto della L.205/00, s'imponga una riconsiderazione del rapporto tra ottemperanza e risarcimento del danno non più in termini di incompatibilità ma di coordinamento.

E' ragionevole ritenere, infatti, che in tali evenienze il ricorrente possa richiedere gli opportuni approfondimenti cognitori e di condanna proponendo domanda contestuale di ottemperanza e di risarcimento del danno al giudice che ha pronunziato la sentenza di annullamento e che ha dato la norma agendi, ricorrendo in giudizio con un unico atto, sia in vista della tradizionale ottemperanza in forma specifica sia per l'alternativa (in tutto o in parte) condanna al risarcimento del danno (TAR Campania, sez. I, sent. n. 44857/01 del 4.10.01).

Per altro verso, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che nel giudizio amministrativo la declaratoria giurisdizionale della illegittimità di un atto amministrativo non costituisce elemento sul quale la parte interessata può innestare una domanda di risarcimento del danno, senza fornire una sua plausibile quantificazione e, quindi, senza cercare di ricostruire gli elementi che configurano un comportamento colpevole di tale gravità da rendere risarcibile il danno.

In sostanza non è possibile costruire uno schema di automatica equivalenza giuridica tra annullamento di un atto amministrativo, comportamento illegittimo della P.A. e risarcibilità del danno ingiusto, ma occorre sempre procedere ad una verifica in concreto degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria.

A siffatta impostazione fa riscontro, sul piano sostanziale, la ricostruzione (compiuta dalle S.U.) della pretesa risarcitoria quale diritto soggettivo, da non confondere con la diversa situazione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (che può avere, indifferentemente, natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo o di interesse comunque rilevante per l'ordinamento), e rispetto al quale, pertanto, è necessaria la positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge.

Secondo le S.U., infatti, qualora sia dedotta una domanda risarcitoria ex art. 2043 nei confronti della P.A., per illegittimo esercizio della funzione pubblica, il detto giudice, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello schema normativo delineato dall'art. 2043, dovrà accertare:

  • se sussiste un evento dannoso;
  • se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per 1' ordinamento;
  • se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva od omissiva) della P.A.; se l'evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A.

 


 

In riferimento al requisito del danno ingiusto, che postula necessariamente una selezione delle lesioni o violazioni abilitanti alla tutela risarcitoria, il problema si pone soprattutto per le ipotesi delle violazioni cd. meramente formali o procedimentali.

Secondo un indirizzo - che sembra maggioritario e che si riallaccia all'indicazione della spettanza /collegamento col bene della vita riveniente dalle S.U. - non può riconoscersi alcun risarcimento in caso di violazioni puramente formali, poiché da esse deriva al più il mero riesercizio conforme della funzione, ma giammai l'attribuzione del bene perseguito, operando la cd. riserva di giurisdizione.

Secondo un altro indirizzo, che però sposta il punto focale della ricostruzione della fattispecie risarcitoria dal modello aquiliano al modello lato sensu contrattuale, anche in ipotesi di violazioni formali deve riconoscersi la tutela risarcitoria per equivalente.

In realtà, secondo autorevole dottrina, sul punto la tutela risarcitoria sconta l'intrinseca inadeguatezza del titolo aquiliano a coprire ipotesi di danni procedimentali, che sono tipici del rapporto amministrativo.

Per quanto riguarda il requisito della colpa, parte della giurisprudenza amministrativa, discostandosi dalla configurazione ad essa data dalle S.U., sottolinea la necessità di "accedere direttamente ad una nozione oggettiva di colpa, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento ed, in linea con le indicazioni comunitarie, della gravità della violazione commessa dall'amministrazione, anche alla luce dell'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell'apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento: per cui se una violazione è l'effetto di un errore scusabile dell'autorità, non si potrà configurare il requisito della colpa; se invece la violazione appare grave e se essa matura in un contesto nel quale all'indirizzo dell'amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa potrà dirsi sussistente." (Cons. St. sez. IV, 14.6.01 n.3169)

A tale tesi si riannoda poi la questione della prospettazione e della prova, posto che l'opinione del tutto prevalente ritiene che l'attore che agisce per il risarcimento debba adeguatamente specificare e dettagliare la domanda, pena l'inammissibilità del relativo capo del ricorso e che incomba altresì sul ricorrente medesimo l'onere della prova della responsabilità (extracontrattuale) della P.A., in tutti i suoi elementi costitutivi.

Per quanto attiene poi all'accertamento di un danno patrimoniale effettivo lo stesso Consiglio di Stato precisa che se la lesione dell'interesse che sostanzia il danno ingiusto non ridonda in una concreta diminuzione patrimoniale non v'è ragione di accordare alcun risarcimento, in quanto per aversi risarcimento occorrono entrambi i requisiti: l'illecito e la perdita patrimoniale.

In base al dettato dell'art. 35 novellato, inoltre, il G.A. conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.

Nello sforzo ricostruttivo di quest'ultimo rimedio, la giurisprudenza amministrativa, posto che il diritto positivo non fornisce dati esaurienti sulla natura di esso né sui limiti di attuazione cui è soggetto, fa riferimento alla disciplina che tale istituto riceve in ambito civile e in particolare agli artt. 2058 e 2933 c.c.

L'art. 2058 c.c. pone un duplice limite all'attuazione di quella che nel corpo dell'articolo viene definita reintegrazione in forma specifica, che consiste nella concreta impossibilità di disporla e nell'eccessiva onerosità per il debitore.


 

L'art. 2933 c.c., nel disciplinare l'esecuzione forzata degli obblighi di non fare, sovrappone l'interesse pubblico all'interesse privato prevedendo che non può essere ordinata la distruzione della cosa e l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento del danno se la distruzione della cosa è di pregiudizio all'economia nazionale.

Pertanto, secondo la giurisprudenza, se un limite è dato apprezzare nei sistemi risarcitori in ambito civile, a fortori devono ammettersi forme corrispondenti nel processo amministrativo.

Così, l'eccessiva onerosità per il debitore considerata dall'art. 2058 c.c., nell'applicazione dell'art. 35, muta veste e diventa eccessiva onerosità per il pubblico interesse e per la collettività, mentre rimane immutato il limite del pregiudizio per l'economia nazionale previsto dall'art. 2933.

Alla luce di questo nuovo sistema che vede l'estensione della cognizione del G.A. dall'atto al fatto, si è posta poi l'esigenza di dettare disposizioni sul processo più strettamente funzionali al nuovo assetto; da qui le previsione, tipiche di ogni processo paritario, di ampliamento dei poteri istruttori del G.A. e in particolare la possibilità di disporre la consulenza tecnica nel campo della giurisdizione generale di legittimità (art. 1 n.2 e 16 della L.205/2000) e la possibilità di ammettere i mezzi di prova previsti dal c.p.c. (art.7 lett.e n.3 ) quanto meno in riferimento alle controversie relative al risarcimento del danno.

Rimane tutta da sperimentare, tuttavia, la capacità del sistema di coniugare la logica dell'atto con la logica del rapporto, assicurando il necessario raccordo alla moltiplicazione degli schemi di tutela, nell'ambito di un disegno assiologico che è necessariamente complesso ma che deve rimanere comunque coerente.