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I rapporti tra la Pubblica Amministrazione ed i soggetti privati hanno ricevuto una regolamentazione normativa mutevole nel corso degli anni, e sono stati da ultimo oggetto di modifica ad opera delle recenti novità legislative riguardanti il procedimento amministrativo.

La ragione di tanto interesse da parte del legislatore nei confronti di questa disciplina è da ricercarsi nelle peculiarità della materia trattata, che rappresenta inevitabilmente il luogo di scontro di esigenze diametralmente opposte, che vengono ora tutelate ora sacrificate dal susseguirsi degli interventi normativi.

Da un lato, infatti, si pone la pretesa dei privati di interloquire con l’amministrazione procedente durante la fase formativa del provvedimento, al fine di prospettare i propri interessi; dall’altro si impone il bisogno di addivenire ad una decisione amministrativa in tempi rapidi e di garantirne l’intangibilità in sede processuale.

L’analisi retrospettiva dell’argomento evidenzia che per lungo tempo nel nostro paese i pubblici poteri hanno amministrato «a porte chiuse», eccezion fatta per alcuni tipi di procedimenti, ed a disprezzo di ogni meccanismo di partecipazione del privato cittadino, fino a giungere alla formazione dell’atto amministrativo all’insaputa del destinatario che ne veniva a conoscenza soltanto al momento della notifica. Così facendo al privato veniva sottratta ogni possibilità di collaborare con l’amministrazione procedente alla determinazione del contenuto del provvedimento, venendogli riconosciuti soltanto i poteri impugnatori in sede processuale. Come era facile intuire, un simile modo di operare non poteva reggere con il progressivo, sia pur lento, processo di democratizzazione dell’azione amministrativa, che tendeva a coinvolgere sempre più il soggetto privato nell’iter formativo della volontà pubblica. Sul piano legislativo, la rottura con il tradizionale modo di amministrare e l’affermazione di un generale diritto del privato alla partecipazione al procedimento amministrativo si è avuta con la legge 241/90, che rappresenta un importante punto di arrivo dei lavori della commissione presieduta da Nigro.

All’indomani della pubblicazione della legge sul procedimento amministrativo e per lungo tempo essa fu al centro di ampi dibattiti di autorevoli studiosi della materia per molti dei quali essa rappresentava una vera e propria rivoluzione copernicana. Sui nuovi rapporti tra amministratori ed amministrati si sono consumati fiumi di inchiostro e sono state scritte numerose pagine di giornali e di riviste giuridiche in cui si evidenziavano i vantaggi e gli svantaggi della scelta legislativa.

Il fulcro della democratizzazione dell’azione amministrativa è rappresentato dall’istituto della partecipazione del privato al processo di formazione della volontà amministrativa, rispetto alla quale risulta strumentale la comunicazione dell’inizio del procedimento amministrativo. Risulta evidente che, se da un lato la partecipazione del privato al procedimento amministrativo rende possibile l’esternazione delle sue esigenze, dall’altro rallenta la conclusione del procedimento.

C’è poi anche da considerare che l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, nonché la sua irregolarità, è in grado di vanificare l’intero procedimento che deve ricominciare ab inizio, per poi magari sfociare in un nuovo provvedimento dallo stesso contenuto di quello annullato nelle sedi giudiziarie.

L’esigenza di scongiurare il rischio di sprechi processuali ha spinto il legislatore ad intervenire attraverso una minuziosa attività di restyling dell’impianto originario, con la legge 11 febbraio 2005 n. 15.

 


 

Un’analisi accurata delle riforme del 2005 evidenzia uno spostamento del tradizionale punto di riferimento: mentre la L. 241/90 prende in considerazione innanzitutto il cittadino ed il suo bisogno di essere coinvolto attivamente nel procedimento amministrativo, la L. 15/05 assume quale riferimento il processo amministrativo e le sue recenti dinamiche, nonché la necessità di deflazionare gli arretrati giudiziali.
È chiaro che il perseguimento dell’obbiettivo di diminuire il numero di ricorsi innanzi ai giudici amministrativi doveva necessariamente passare attraverso la modifica della tradizionale disciplina dei vizi dell’atto amministrativo, considerata una delle maggiori cause dell’ingolfamento della macchina giudiziaria amministrativa.

L’intervento messo in atto a tale scopo è rappresentato dall’introduzione dell’art. 21 octies che, nel contesto in esame, rileva soprattutto per il suo secondo comma ove si stabilisce che in presenza di un’attività amministrativa vincolata l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, oppure la sua irregolarità, non inficiano l’atto allorquando per la natura vincolata il suo contenuto non sarebbe stato diverso anche se fosse stata garantita la partecipazione dell’interessato.La conseguenza della riforma è la consacrazione dell’irrilevanza della violazione della garanzia partecipativa in presenza di atti che risultano espressione di un potere amministrativo vincolato.

Tale irrilevanza, infatti, è sempre sussistente, in quanto la natura vincolata dell’atto preclude qualsivoglia margine di discrezionalità da parte dell’amministrazione, e ciò indipendentemente dalla presenza dell’interessato nel corso della sua formazione.Attraverso l’equazione introdotta dal legislatore: violazione della norma sulla comunicazione = non annullabilità, laddove il contenuto dispositivo dell’atto non sarebbe potuto essere diverso, si è ingiustamente sacrificato l’istituto della comunicazione per l’intera categoria degli atti vincolati.
Questa scelta non può dirsi immune da critiche e induce a riflettere sulla sussistenza di altre strade idonee a garantire il risultato voluto dalla classe politica dominante con un sacrificio minore dei diritti degli amministrati.

Sicuramente la scelta del legislatore assicurerà un’amministrazione «di risultati», efficiente, veloce ed economica. Il prezzo di tutto ciò, tuttavia, è rappresentato dal sacrificio dell’istituto della comunicazione e dalla perdita, per il destinatario dell’azione amministrativa, della possibilità di far valere le proprie ragioni.